Schegge di viaggio 4: Assaggi Viennesi

Wiener Blut

Kunsthistorisches Museum, al centro dell’isola museale cittadina, palazzo orgogliosamente seduto in mezzo al verde del parco pubblico, umilmente ossequiante di fronte ad una enorme effigie dell’imperatore Franz Joseph. L’orgoglio ed il vanto di una perfetta scatola per gioielli di corte traspira dal grigio delle mura di questi edifici gemelli, l’attesa epifanica di osservare finalmente - a debita distanza, s’intende - Tintoretto e Van Dyck, l’arte romana e quella egizia si placa velocemente.

Lo Spittelberg è un quartiere Biedermeier che sembra spuntare direttamente da un quadro di Spitzweg: vecchie case restaurate a dovere come una chanteuse prima di una serata di beneficenza; palazzi policromi che contrappongono magicamente il grigio che li inghiotte, fanno dimenticare per un momento la plumbea serietà imperiale.
Qui si può mangiare all’austriaca, all’ombra di una finestra addobbata con fiori alpini, al centro di un idillio tardo borghese, insieme ad altri turisti che si godono cibo e bevande sottovoce. L’ambiente è quasi perfetto, la sensazione di salto cronologico è tale che non sarei affatto sorpreso dal sopraggiungere improvviso del vecchio Grillparzer, caustico ed onesto cantore dei vicoli viennesi, anch’egli approdato al tavolo di fianco a noi.



Spittelberg

La Herrengasse con il famoso Caffè Central, attraverso le finestre si intravede già la statua di Altdorf, il poeta del bar, l’unico cliente fisso che non va in ferie, nemmeno di Domenica.


Cafè Griensteidl


In direzione del padre Danubio (madre, secondo l’etimologia germanica..) si incontra il quartiere ebraico di Schwedenplatz: il corso del fiume sembra profilarsi come vero e proprio “umbilicus Juvenum” di Vienna, con Stuben e Geiseln come se piovesse, la musica si mescola continuamente con lo sciabordio dell’acqua del - mai stato blu - Danubio, fiume che ha creato e diviso l’Europa, estremo limes storico e culturale, corso d’acqua che potrebbe prosciugarsi da un giorno all’altro, nel momento in cui qualcuno chiudesse il famoso rubinetto a Donuaerschingen..

Da Schönbrunn al Prater: malgrado la non indifferente distanza, le due atmosfere viennesi non divergono poi molto. La magia del luogo sacro agli Absburgo è una perfetta quinta teatrale per la saga imperiale, che comunque rimane un enorme, sfarzoso, parco giochi, un luogo in cui la politica ha spesso danzato ( spesso mentre fuori dal palco la storia ufficiosa piangeva le sue vittime). Luogo sicuramente nobile, sofisticato, tra arazzi e porcellane cinesi, che sfoggia una notevole galleria di ritratti di re morti e regine defunte. Una nobiltà che sembra pari a quella del Prater, dove la ormai secolare Riesenrad simboleggia una città imperiale ( ed il sottile paradosso urbano è già implicito nella definizione..), e ciò che allora parve al mondo emblema di un impero felice e potente, oggi resta - pur nel suo eccentrico fascino di puer ludens ipertrofico - un semplice monumento all’effimero, ennesima trovata dei viennesi per darci modo di tessere le lodi della città dall’alto.

Schönbrunn (la bella fontana dall’acqua curativa che da’ il nome al luogo, oggi resta solo nella toponomastica) accoglie i transfughi dell’impero perduto nelle ampie sale, dove la storia attende pazientemente l’ennesima udienza dell’imperatore, un palazzo che brulica di orologi, dove regna l’ossessione del tempo che fugge, da Dürer alla Totentanz, migliaia di battiti diacronici cercano di fermare l’attimo, quasi presagendo il grigio destino del destino imperiale.
La perfetta, immobile, simmetria delle sale sfarzose, l’esasperata messa in mostra del lusso della Felix Austria viene tragicamente contrappuntata dall’incessante ticchettio degli orologi da tavolo, delle pendole a muro, tutti meccanismi ignari delle volontà imperiali, e continuano a battere le ore, oltre i progetti del vecchio Joseph, le fughe di Sissi, le nascite ed i lutti imperiali. Improvvisamente, da un angolino infinitesimale di un grandissimo affresco imperiale, che mostra la folla astante all’incoronazione dell’imperatore, spunta - debitamente ingrandito da una provvidenziale lente d’ingrandimento - il volto curioso e vivace del piccolo Salisburghese, attento spettatore dell’imperiale assise, e nostro contemporaneo.
Il parco gareggia con Versailles, lasciando trapelare l’ennesima malcelata invidia per la cugina Francia dei Re decapitati. Una caldissima serra ospita centinaia di farfalle belle e stizzose, ritrose a farsi toccare da mani umane, eppure pronte a spiegare le ali allo scatto della macchina fotografica, da vere dive del cinema.


Il Naschmarkt, variopinto mercato alimentare che stimola l’olfatto e gli occhi dei visitatori, come la bottega di un antico aromataro: “...bianchi savori, rossi e camellini..” al pari di un sonetto del Pudenziani fattosi immagine ed odore, una sensazione cromatica ed olfattiva delirante, sospesi tra oriente ed occidente, ci si muove a stento tra facce e colori del vecchio impero.
I turchi forse non hanno mai completamente abbandonato Vienna, ingannando il principe di Lorena, si sono solo travestiti da mercanti, vivono ancora qui, celandosi tra i banchi di frutta poliforme, alla faccia dell’impero..


La casa della Sezession appare all’improvviso appena oltre i banchi di frutta, nei pressi di Karlsplatz, il vero luogo-simbolo della sperimentazione artistica Viennese sembra appena uscito da un catalogo d’arte: palazzo sfrontato, nella sua iperbolica - eppure raziocinante - bellezza, esagerato in ogni misura, e tuttavia perfettamente viennese. Le parole scolpite nel marmo: “Jeder Zeit seiner Kunst; jeder Kunst seiner Freiheit” risuonano ancora come il futuro connubio tra urlo e geometria, quello di una seconda primavera delle arti a Vienna.


Sezession Haus


Il Zentrales Friedhof, accoglie le tombe ed i monumenti dei più nobili figli di Vienna, molti dei quali caduti sul campo del pentagramma: l’effigie di Behetoven, illustre ospite renano, riposa accanto a quella di Mozart, il cui corpo cerca però ancora una degna sede, e poi Brahms accanto ad uno stuolo di componenti della stirpe Strauss, tutti morti e tutti ben allineati.


Il Belvedere, ennesimo, ottimo esempio di sfarzo absburgico, con la complicità del Duca di Savoia (l’eroe dei Turchi, tanto per capirci..) che qui dimorò a servizio dell’imperatore.
Si è di nuovo immersi in un giardino lussureggiante, con tanto di mini-cascata artificiale e dedalo di siepi guardate a vista da statue allegoriche, . Al suo interno il Belvedere Superiore ospita una magnifica collezione d’arte che fa vibrare a lungo le corde dell’appassionato di quello Jugendstil, di cui Klimt rappresenta l’espressione più alta: alcune delle sue opere maggiori sono esposte proprio qui, accanto a Schiele, Kokoschka, Van Gogh, Monet ed altri maestri, tutti a fare sfoggio di se stessi, lasciando il povero germanista onnivoro in uno stato semi catalettico, post-estatico che sfocia in una dolcissima sensazione di ipertrofica soddisfazione artistica...

Hundertwasser Haus: vero delirio d’onnipotenza cromo-visionaria. Una casa - giocattolo, pongo policromo maneggiato da un gigante mai cresciuto, luogo infantile per eccellenza, eppure reale, come i suoi bagni, ed i balconi, progettati da un architetto pazzoide che volle progettare il futuro direttamente del passato remoto, dando così forma ad un allucinato, enorme, affascinante trompe d’oeil viennese.


Hundertwasser Haus


Beehtoven Haus: l’appartamento del musicista renano mi accoglie in tutta la sua essenziale comodità, all’ombra di un grande albero. Da un vicolo seminascosto varco il portone d’ingresso per rendere omaggio al genio: il pianoforte fa sfoggio di se’ al centro della Musikzimmer, accanto sono visibili documenti autografi ed immagini che testimoniano il passaggio terreno del genio. La vista che tutt’oggi si gode dalla finestra della sala, “..ist eine Reise wert..” come dicono da queste parti, e tutto l’ottocento viennese si sintetizza immediatamente sotto il mio sguardo.
Qui più che mai mi colpisce il pensiero del vecchio compositore vicino alla completa sordità, autore di un’arte a lui inaccessibile, un Prometeo sordo, che forse avrebbe preferito essere cieco, per non dover sopportare più gli sguardi di scherno dei bambini e della gente curiosa di fronte al tempio musicale che andava progressivamente in rovina.


L’uomo che è riuscito a musicare l’anima ha dimorato un centinaio d’anni prima, ma a pochi metri di distanza, da colui che l’anima l’ha vivisezionata, dallo studio del Dott. Freud, in Bergstrasse. Tutto è ancora lì, intatto ed intangibile: il suo cappello, il bastone, i suoi tanti libri, lo strano giaciglio (all’apparenza alquanto scomodo) che avrebbe dovuto essere un prototipo di lettino psicanalitico, la sua raccolta d’arte preistorica, così come li idoli, i totem incas accanto ai tabù viennesi; tutto ben disposto dietro teche di vetro.
In questo luogo si ha ancora l’impressione che il dott. Freud sia appena uscito per una visita improvvisa, in procinto di rientrare da un momento all’altro, forse stupendosi per la folla di curiosi poliglotti che si accalcano presso le sue stanze, tutta gente che mai come oggi avrebbe bisogni dei suoi consigli.
L’arredamento tardo Biedermeier ed il grazioso balcone da cui si intravede il cortile interno del palazzo, contrastano ferocemente con le teorie sulla schizofrenia e sull’isteria che il dottore ebreo viennese elaborò dolorosamente qui, al centro dell’idillio borghese di fine secolo...

La Kunstakademie, vera e propria scuola, con tanto di studenti e bacheche indicanti innumerevoli avvisi di offro/cerco. In più però qui c’é Jeronimus Bosch, con il suo trittico del Jüngstes Gericht. Un’opera a lungo osservata sui libri scolastici, quasi uno di casa nella mia galleria d’arte immaginifica: una mimesi di un lucido incubo profetico, l’opera è ora qui in carne e tela finalmente.
Teste mozzate, corpi devastati dalla malattia e dal peccato, mani che ospitano occhi, tutto il mondo di Bosch emana profumo di peccato, quasi fino ad annullare il bene metafisico che timidamente appare dall’alto del cielo brunastro del quadro. Il rosso dell’olandese è molto più di un colore, è l’espressione più alta del delirante, eppure lucido, dolore, di un’attenzione quasi sadica per il male, da cui non c’é riparo...



Hyeronimus Bosch


La casa di Mozart nella Domgasse. L’ambiente a dir poco spartano dell’appartamento/museo contrasta con la vista che si gode dalla finestra della sala, da cui si scorgono case rinascimentali e barocche, il tutto ad offrire un quadro quasi lirico dell’ambiente in cui nacque il Figaro, un luogo simbolico dell’anima viennese.
Una calma serafica avvolge le stanze in cui ci si muove con discrezione, quasi per non svegliare il mito dormiente, lasciando spazio per i pensieri e la musica: la sorprendente partecipazione popolare alla musica con cui i viennesi si cibano del mito Mozartiano, è figlia di questa pace domestica, delle stanze in cui Mozart sedeva al piano per comporre le sue opere, ostaggio ed ospite d’onore di una città che forse non l’ha mai capito.

Mozarthaus


Vienna resta in fondo una città immobile, di una ferma rapidità in cui le facciate dei vecchi palazzi borghesi si scontrano con la folle genialità della Hundertwasserhaus, dove la Haas Haus riflette perfettamente lo skyline del vecchio Duomo medievale, producendo il simbolo perfetto del luogo, piazza in cui passato e futuro si fondono, fregandosene allegramente del presente.

Commenti

María ha detto…
Eccellente il viaggio per questa città dove lo antico e moderno coabitano di maniera natural, con eleganza e sobrietà, senza perdersi nessuno.
L'amore per il passato e il suo riconoscimento come proprio, per me,è una delle chiavi affinchè un paese sia grande.Nel mio paese manca molto di più. Ma, gli insegnanti lavoriamo in questo.
Saluti!!
fabio r. ha detto…
hai pienamente ragione Maria.
Io poi sono appassionato di storia e cultura di mio, provo solo a trasmettere questo amore agli studenti, ma non è facilissimo...
saluti da una "fresca" Umbria.

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