L'Utopia Danubiana secondo Joseph Roth; qualche riflessione intorno alla Marcia di Radetzky
“Il Danubio è
ancora una volta il simbolo della frontiera, perché il Danubio è un fiume che
passa attraverso tante frontiere, è quindi simbolo della necessità e della
difficoltà di attraversare frontiere, non soltanto nazionali, politiche,
sociali, ma anche psicologiche, culturali, religiose. Il viaggio danubiano è
pure un viaggio nei propri inferi e in quella Babele del mondo odierno che
certamente ha nella Mitteleuropa un suo simbolo particolare, ma è una Babele
del mondo intero”
(Claudio
Magris: Danubio)
Secondo una felice intuizione del germanista e scrittore
Claudio Magris l’impero Austro-Ungarico può ben definirsi la “civiltà del
frammento”: con questo termine l'autore intende sottolineare la complessità
culturale (e linguistica) di un territorio così vasto, un gigante politico e
militare che ha dettato legge in Europa
per oltre 500 anni, ma che – in sostanza – aveva i piedi di argilla, essendo
costituito da decine di micro-identità territoriali, di enclave, di minoranze
etniche, tutte compresse e guidate dalla grande aquila asburgica, le cui enormi
ali si estendevano lungo il Danubio, vera koinè dell’impero.
La “Felix Austria”, quella parte di mondo sui cui non
tramonta mai il sole, ha segnato la cultura europea di gran parte del 19° e del
20° secolo: basti pensare a Klimt, la Secessione, la letteratura mitteleuropea,
i Caffè viennesi, la psicanalisi, il Valzer, l’opera lirica ecc…. Non a caso Vienna e la civiltà danubiana
ancora oggi sono sinonimo di arte e memoria, della nostalgia di un tempo
“eroico” dell’Europa, e l’asse Vienna – Budapest – Praga è entrato di diritto
in una sorta di geografia onirica della nostra storia comune.
Tra i cantori della bella Epoque annoveriamo Schnitzler, Grillparzer,
Stifter, Hoffmanstahl, Karl Kraus, Werfel ed infine Stefan Zweig e Joseph Roth:
questi due ultimi autori sono anche i
testimoni della fine di un’era, i poeti della decadenza asburgica, che partono
dalla fine di quel sogno imperiale per raccontarci la nascita di un nuovo
secolo, di nuovi equilibri, descrivendo l’immobilità danubiana di fronte al
moderno, con occhio critico, ma anche con la tenerezza di chi ha vissuto
all’interno di un’utopia estetica come quella asburgica.
Stefan Zweig è l’esule, il ribelle, che descriverà nel
suo “Mondo di ieri” le ipocrisie, le miserie spirituali che si celavano sotto
la patina rispettabile dell’Austria Felix tanto decantata dalla stampa
ufficiale; in un’epoca in cui Freud
(proprio nel suo studio Viennese di Berggasse) ha iniziato a scoperchiare la
pentola del subconscio, Zweig usa le stesse tecniche per disvelare l’inconscio
della sua nazione, portando alla luce la faccia sotto la maschera.
Un tema, questo della maschera, che ricorre anche in
Schnitzler, non a caso amico e
confidente di Freud, il quale nel “Doppio
sogno” si occupa proprio di questi temi. Dal suo racconto Stanley Kubrik ha
poi tratto il film Eyes wide Shut.
L’altro “Omero” della Finis
Austriae è Joseph Roth: un autore a
lungo osteggiato e quasi dimenticato, che però nella seconda parte del 20°
secolo si è preso la sua – postuma – rivincita: dalla sua penna è
scaturita l’immagine più vivida e
partecipata del passaggio storico tra il mito Asburgico e la Anschluss
nazista.
Narrando l’epopea della famiglia Von Trotta, dagli
splendori dell’Impero fino alla vigilia dell’era nazionalsocialista, Roth ci
coinvolge nella malinconica nostalgia del passato eroico, in una narrazione
sempre ammantata da un velo di tristezza, poiché lui è testimone di questa
parabola discendente, in quanto scrittore contemporaneo, che vive ed opera
sotto il dominio Hitleriano, opponendovisi con l’unica arma che trova efficace:
la sua letteratura.
In due volumi, La
marcia di Radetzky e La cripta dei
Cappuccini, Joseph Roth dipinge un quadro idealizzato delle speranze e delle
delusioni della dinastia danubiana; il suo sguardo nostalgico verso quell’epoca (La Marcia di Radetzky
risale infatti al 1932, alla vigilia della presa di potere di Hitler…) ci parla
anche della debolezza intrinseca di quel periodo, un tempo sembra mitico, ma
che in effetti aveva in se’ i germi della contaminazione nazionalsocialista.
La storia della
famiglia Von Trotta è il paradigma di questa caduta, del declino imperiale
asburgico: la vicenda inizia infatti con la battaglia di Solferino, nel 1859,
quando un oscuro sottotenente, di
modeste origini e sloveno di nascita, salva dal colpo di fucile di un cecchino
l'imperatore Francesco Giuseppe e rimane ferito. Per questo atto di coraggio il
semplice soldato Trotta acquista il
prefisso nobiliare “Von” e una promozione nell'esercito.
La marcia di Radetzky è la colonna sonora ideale per le
vicende della famiglia Von Trotta, che inizia proprio con l’eroe di Solferino (che lascerà
l'esercito quando scoprirà che il suo gesto nei libri di storia per le scuole è
stato gonfiato a scopi propagandistici…) passando per le generazioni successive, fino al nipote, il
sottotenente Joseph von Trotta, che morirà nella Grande Guerra. Il romanzo si
chiude con la morte di Francesco Giuseppe e la parallela e conseguente morte
del capitano distrettuale, padre di Joseph e figlio dell'eroe di Solferino.
L’ultimo rappresentante della nobile stirpe è (come nei Buddenbrook di Thomas Mann) forse
il più “decadente”, l’antieroe che vive la sua eredità come un peso: Carl Joseph, un sottotenente svogliato,
ingessato dal formalismo. Lui è la
metafora della disillusione imperiale, e la sua breve esperienza militare (vera
e propria “lingua comune” familiare..)
coincide con lo scoppio della Grande Guerra. La sua morte grigia avverrà
in un giorno di pioggia, e lui morirà senza aver combattuto, senza aver vissuto
nemmeno per un'ora in quella guerra, alla quale si era preparato per tutta la
vita.
Joseph Roth fa della decadenza dei Von Trotta un perfetto
paradigma delle fine dell’Impero, narrandoci anche la storia dell'imperatore, mentre le due
trame viaggiano parallele nel romanzo: più stabile la prima, a sprazzi invece e
per brevi incontri la seconda.
La marcia di Radetzky è quasi un romanzo a tesi,
costruito con il fine di voler narrare il declino dell’epoca Asburgica . La
decadenza è l'oggetto stesso del racconto, essa è infatti annunciata pagina
dopo pagina, è indicata e evidenziata in mille segni e in mille situazioni
simboliche.
Molte sono le descrizioni che accennano alla fine di quel
mondo, al tramonto del sogno universalistico di un impero multietnico, un luogo
in cui l’Imperatore – alla fine della sua vita – perde la memoria dei confini,
e la frontiera inizia a dissolversi prima ancora di scoppiare in una guerra: “quella frontiera dove la rovina del mondo
già si poteva vedere chiaramente, come si vede un temporale addensarsi ai
margini di una città..." e ancora "Perché
era solo a questo mondo! E anche questo mondo crollava!" "Noi siamo,
dico, gli ultimi di un mondo in cui Dio elargisce ancora le sue grazie ai
sovrani..."
C'è rimpianto, da parte di Roth, per questo mondo che
scompare? Sicuramente c’è affetto,
reverenza, ma anche ironia nel descrivere
un vecchio imperatore un po’
rimbambito, come si farebbe per un vecchio zio che si sopporta a casa, magari
come ospite per le feste… C’è della
polvere nel romanzo, come quella che si
posa col tempo sopra il mobilio Biedermeier delle case borghesi, un presagio
della fine, una fine intuita da persino da Francesco Giuseppe, l’imperatore che
amava le divise, le parate militari, il formalismo della corte, ma disprezzava le guerre, perché sapeva che “le guerre si perdono”…
Gli eroi di quel mondo ora si guardano da lontano, con
ironia, ed allora ci si accorge che non hanno un vero spessore umano: sono
marionette, stereotipi, burocrati della vita, stretti e ingabbiati in uno
schema da operetta Viennese.
In questo La Marcia di Radetzky è un romanzo importante,
che segna un'epoca e rappresenta l’opera più significativa di un'intera
generazione di artisti e di letterati. Protagonista del romanzo è il declino di
un'intera epoca. Il mondo è cambiato dopo la Grande Guerra, e Roth lo ha
fotografato un attimo prima che tutto crollasse. Con questo romanzo possiamo
ben dire che si chiude un'epoca. Solo dopo La marcia di Radetzky inizia
veramente il ‘900.
N.B. questo testo è stato recentemente pubblicato anche nella rubrica "Babele", all'interno del sito cronache24.
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