27 Gennaio: Voci dalla tempesta

Il 27 Gennaio 1945 - proprio 70 anni fa' - i soldati sovietici entravano ad Auschwitz-Birkenau.

Passato il primo momento di sgomento ed incredulità di fronte all'inferno alcuni intellettuali europei fecero i primi tentativi di una elaborazione "letteraria" della Shoah, un compito arduo e forse inutile, visto che nessuna parola potrebbe mai risarcire, né tanto meno raccontare l'Inferno, a meno che non si usino metafore dantesche.

Più che Primo Levi - che  per primo illuminò da noi quel terribile sentiero verso l'abisso Nietschiano - oggi viene in mente il Montale del "Non chiederci parola", per cui, di fronte al male assoluto, è più semplice determinare ciò che non siamo piuttosto che riflettere su  quella banalità del male che fa ancora paura.

Nel silenzio generale, di fronte alla scelta di negare ogni valore poetico a quella modernità stuprata, seguendo il dettame di Adorno secondo cui "dopo Auschwitz non potrà più esserci poesia al mondo", ci furono però voci isolate, vere e proprie lame nella tempesta post-bellica, che col loro fioco luccichio riuscirono a scalfire  il ghiaccio dell'anima lacerata, come voleva Kafka.

Paul Celan è il primo poeta di lingua tedesca che affronta l'Olocausto, proprio perchè l'ha vissuto, è un sopravvissuto che però - come Levi - non sopravviverà alla vergogna di vivere nella morte della sua generazione, e sceglierà il suicidio nelle acque della Senna, anticipando in modo quasi profetico il destino del suo compagno di prigionia torinese,

La sua raccolta poetica si chiama "Mohn und Gedaechtnis", ovvero "Papavero e memoria", un titolo che richiama alla mente l'oppio, che dal papavero si estrae, e che ci porta all'oblio, ad uno stato di felice abbandono dei sensi, che però qui viene affiancato al dovere della memoria, in un contrappunto significativo.
Todesfuge (Fuga di morte) è il suo capolavoro: una poesia costruita come  una fuga di Bach, in cui la parola fuga rimanda sia al componimento musicale che al tentativo di sfuggire alla morte. Un  poema che sembra scritto di getto, in una delle baracche del Lager, in un estremo tentativo di esorcizzare la morte imminente, che attende i prigionieri là fuori, dove abbaiano i cani, dove si vede il fumo del camino, dove le buche che si scavano in terra sono strette, quindi è meglio scavarne  una nell'aria, così almeno non si starà stretti.
La poesia si legge tutta d'un fiato, non ha punteggiatura, ed il ripetersi infinito del refrain iniziale (nero latte dell'alba) ci avvinghia in una spirale di orrore senza fine, a cui non possiamo che cedere.


L'altra voce rappresentativa di questo tentativo di elaborazione/descrizione dell'abisso in lingua inglese è il poeta W. H. Auden, noto al grande pubblico per vie trasverse, curiosamente anche grazie ad un film (Quattro matrimoni ed un funerale) in cui viene letta una sua splendida poesia "funebre" che ha colpito milioni di spettatori.
Anche Auden ama la musica, e molte sue composizioni sono dei veri e propri "Blues", ovvero poesie che seguono una  linea melodica che richiama il classico stile del Mississipi, e non si può fare a meno di associare la sua lingua alle note.

 Nei mesi immediatamente precedenti lo scoppio della seconda guerra mondiale Auden scrisse ‎alcune di queste poesie pensandolo come atto di accusa  contro il nazismo e l’orrore che si profilava all'orizzonte, anzi, che era già ‎manifesto, per lo meno per chi voleva vederlo.
In "Refugee Blues” Auden descrive in modo chiaro, ‎asciutto e drammatico la condizione degli Ebrei nell’Europa travolta dalla furia di Hitler, mettendo ‎il dito in una piaga ancora oggi aperta, quella dell’indifferenza e addirittura del rifiuto che gli ‎Ebrei si videro opporre dalle “democrazie” dell’epoca nel loro disperato tentativo di trovare rifugio ‎ed asilo, anticipando così il tragico finale dell'Olocausto.

Il poema è stato - giustamente, visto la sua natura - musicato, e questa è la sua versione attuale:



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