The runaway American dream
Il Boss è tornato a Roma, la "città più bella del mondo" e ci accoglie in un italiano un po' arrugginito (malgrado le radici materne) con "Roma, daje!" giusto per far esplodere i 70.000 al Circo Massimo, così, per alleggerire l'attesa...
Un concerto di Springsteen non è un semplice evento musicale, ovvero, lo è - ci mancherebbe altro - ma solo in parte, solo ad una prima lettura superficiale: il Boss è genuinamente "blood, flesh and tears" dell'America contemporanea, lui rappresenta tutto ciò che la cultura popolare - nel senso più alto, non diminutivo - può proporre al mondo.
Tra le righe degli spartiti, tra una nota e l'altra si stende la tradizione orale e quella letteraria, la memoria collettiva e quella personale dell'America, una memoria che si fa testo, trama, "plot" per dar vita e dei mini romanzi in musica, erede della tradizione Mozartiana, volendo spingerci un po' più indietro, per cui il libretto è parte potente dell'opera, e Don Giovanni, o Figaro, non troverebbero voce se dietro la musica non ci fosse il testo.
Il bello dei suoi show (concerto è un termine riduttivo per lui) è che ognuno può trovarci qualcosa che sente solo "suo", in un processo immediato di personificazione, di appropriazione di quei miti moderni che il Boss descrive come antieroi nei suoi testi. Ogni singolo spettatore si lega - quasi come per affinità elettiva - ad uno o all'altro pezzo, e lo fa suo, si immedesima nella musica e nel testo.
E' "a kind of magic", eppure succede ogni volta: la sua musica comincia ad essere classificata nella colonna dei "classici " (e qui viene in mente Brecht che aveva paura di diventare un classico, per cui intoccabile ed etereo...) eppure ogni generazione la riscopre, ogni volta riprende vita, e ci sarà sempre qualche neofita che la scoprirà per la prima volta, e noi - vecchi apostoli laici - lo invidieremo un po', perché la scoperta del Boss è un'esperienza che abbiamo vissuto secoli prima, e che sarà difficile ripetere oggi.
La sua musica non ha confini o limiti cronologici, perché le sue storie (e qui sì che possiamo definirlo uno "story-teller" nel senso più alto del termine) racchiudono ogni momento delle nostre esperienze passate e future; Alessandro Portelli grande americanista, cultore della storia orale, appassionato Springsteeniano ed incidentalmente anche mio ex professore all'università - ha ben descritto questo processo in un libro imperdibile per ogni fan (Badlands - Springsteen e l'America, il lavoro e i sogni. Donzelli editori) :
Tutti i nostri eroi, tutte le nostre età, tutte le canzoni del Boss ci accompagnano nel lungo viaggio - quasi 4 ore di spettacolo - che inizia in un cielo terso al tramonto, con i Fori Imperiali e l'Altare della Patria già colorati di rosa, e che si insinua nella "Darkness" romana, in un momento unico, che dura tutta una vita, che sintetizza il sogno americano anche per noi, gente del sud, che del New Jersey abbiano visto a malapena un pezzo di strada in un film alla TV, ma che grazie a lui conosciamo quasi come la piazzetta sotto casa.
I suoi personaggi, le sue storie di fuga e riscatto, i lunghi accordi che sembrano accompagnare l'attesa dei latinos ai bordi della strada, per poter respirare un po' di quel sogno, ma che sappiamo è una trappola - come ci ha insegnato Tom Joad - il sax che ci porta dentro Jungleland, i salti e la faccia scavata, da operaio delle acciaierie, da fratello più grande, tutto è poesia grazie al ritorno del Boss, in una Roma che per una sera sembra quasi Asbury Park.
Un concerto di Springsteen non è un semplice evento musicale, ovvero, lo è - ci mancherebbe altro - ma solo in parte, solo ad una prima lettura superficiale: il Boss è genuinamente "blood, flesh and tears" dell'America contemporanea, lui rappresenta tutto ciò che la cultura popolare - nel senso più alto, non diminutivo - può proporre al mondo.
Tra le righe degli spartiti, tra una nota e l'altra si stende la tradizione orale e quella letteraria, la memoria collettiva e quella personale dell'America, una memoria che si fa testo, trama, "plot" per dar vita e dei mini romanzi in musica, erede della tradizione Mozartiana, volendo spingerci un po' più indietro, per cui il libretto è parte potente dell'opera, e Don Giovanni, o Figaro, non troverebbero voce se dietro la musica non ci fosse il testo.
Il bello dei suoi show (concerto è un termine riduttivo per lui) è che ognuno può trovarci qualcosa che sente solo "suo", in un processo immediato di personificazione, di appropriazione di quei miti moderni che il Boss descrive come antieroi nei suoi testi. Ogni singolo spettatore si lega - quasi come per affinità elettiva - ad uno o all'altro pezzo, e lo fa suo, si immedesima nella musica e nel testo.
E' "a kind of magic", eppure succede ogni volta: la sua musica comincia ad essere classificata nella colonna dei "classici " (e qui viene in mente Brecht che aveva paura di diventare un classico, per cui intoccabile ed etereo...) eppure ogni generazione la riscopre, ogni volta riprende vita, e ci sarà sempre qualche neofita che la scoprirà per la prima volta, e noi - vecchi apostoli laici - lo invidieremo un po', perché la scoperta del Boss è un'esperienza che abbiamo vissuto secoli prima, e che sarà difficile ripetere oggi.
La sua musica non ha confini o limiti cronologici, perché le sue storie (e qui sì che possiamo definirlo uno "story-teller" nel senso più alto del termine) racchiudono ogni momento delle nostre esperienze passate e future; Alessandro Portelli grande americanista, cultore della storia orale, appassionato Springsteeniano ed incidentalmente anche mio ex professore all'università - ha ben descritto questo processo in un libro imperdibile per ogni fan (Badlands - Springsteen e l'America, il lavoro e i sogni. Donzelli editori) :
Tutti i nostri eroi, tutte le nostre età, tutte le canzoni del Boss ci accompagnano nel lungo viaggio - quasi 4 ore di spettacolo - che inizia in un cielo terso al tramonto, con i Fori Imperiali e l'Altare della Patria già colorati di rosa, e che si insinua nella "Darkness" romana, in un momento unico, che dura tutta una vita, che sintetizza il sogno americano anche per noi, gente del sud, che del New Jersey abbiano visto a malapena un pezzo di strada in un film alla TV, ma che grazie a lui conosciamo quasi come la piazzetta sotto casa.
I suoi personaggi, le sue storie di fuga e riscatto, i lunghi accordi che sembrano accompagnare l'attesa dei latinos ai bordi della strada, per poter respirare un po' di quel sogno, ma che sappiamo è una trappola - come ci ha insegnato Tom Joad - il sax che ci porta dentro Jungleland, i salti e la faccia scavata, da operaio delle acciaierie, da fratello più grande, tutto è poesia grazie al ritorno del Boss, in una Roma che per una sera sembra quasi Asbury Park.
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